Oggi è 25 aprile, festa nazionale. Velia Sacco c'era ai tempi della liberazione dell'Italia dal nazifascismo e può raccontare attraverso la sua vita un pezzo di storia. E lo ha fatto ai microfoni de Il Mattino, condividendo con i lettori la sua straziante e significativa avventura. È un’ex partigiana, oggi
ha 100 anni e sette mesi ma i suoi occhi si riempiono ancora di lacrime quando ricorda l’arrivo dei
tedeschi nella sua casa: all'epoca abitava a Celano, in provincia de L’Aquila. Napoli era
già stata liberata nel settembre del ‘43 con le famose
Quattro giornate, ma il centro e il nord Italia era ancora terra di razzie
da parte dei tedeschi. Così racconta a Il Mattino: «Ho davanti ai miei occhi l’immagine di quando arrivarono con i carrarmati e distrussero tutto: vedemmo all’improvviso radere al suolo abitazioni, qualsiasi cosa
trovavano. Rubavano nelle case, prendevano cibo, vestiti,
bestiame, violentavano le donne. Mio padre era
capostazione e con la mia famiglia abitavano lì, proprio vicino alla stazione
ferroviaria. C’era stato il terremoto in quelle zone e tanti vivevano in
abitazioni provvisorie. Eravamo l’unica casa del paese ad avere l’acqua
corrente proprio perché serviva per i rifornimenti nella stazione. Anche
tedeschi venivano a rifornirsi lì, ma un bel giorno distrussero anche le
condutture d’acqua. Rimase solo un pergolato. Noi ci nascondemmo e fummo costretti
a bere per giorni acqua delle fogne: la bollivamo per
cercare di uccidere i batteri. A mia sorella che all’epoca aveva 8 anni, mio
padre faceva succhiare mele o patate per farle reperire un po’ d’acqua: aveva
paura a darle l’acqua delle fogne, era ancora piccola».
Difficile immaginare, specie per i più giovani. Ma continua: «Avevo anche un fratello Velia, all’epoca aveva 14 anni: io e mia
madre lo vestivamo da donna per paura che prendessero anche lui. In quel periodo si portavano i pantaloni alla zuava, li nascondeva
sotto la gonna. Ricordo che una volta aiutammo una donna che aveva paura per
suo figlio: caricavano tutti sui vagoni del treno, poi lasciavano andare le
donne e trattenevano gli uomini. Facemmo mettere una doppia gonna a quella
donna in modo che potette poi farla indossare di nascosto al figlio, coprendo i
pantaloni alla zuava. E così riuscirono a salvarsi entrambi e a tornare a casa.
Non tutti però riuscivano a salvarsi: un giorno sequestrarono un collega di mio
padre a lavoro, in stazione. La moglie chiese disperata quando lo avrebbero
rilasciato, quando sarebbe potuto tornare a casa. Le risposero che sarebbe
tornato il giorno seguente: ma all’indomani arrivò
la sua testa in un cestino. Difficile raccontare quei
momenti: torturavano e uccidevano chiunque potesse essere sospetto, noi
vivevamo nella paura». Ma Velia e la sua famiglia sono stati parte
attiva nella Liberazione.
Ma gli episodi sono innumerevoli: «Alle 8 di sera c’era il coprifuoco. D’estate però faceva buio più tardi e non avevamo
orologi all’epoca. Poteva capitare che fra tanto lavoro si sforava un po’: i
tedeschi però sparavano chiunque vedevano ancora in giro. Una sera uccisero il
nostro vicino che rientrava dai campi. Così, senza motivo: probabilmente era un
po’ più tardi delle otto. Aveva 57 anni e io mi presi cura della vedova, ma promisi
di mettere fine a tutto questo. Cercavamo di aiutare come potevamo. Mio padre sapeva quando passavano i treni
con i prigionieri liberati dai partigiani: li facevano viaggiare nei carri
bestiame, al buio, per nasconderli. Li facevamo proseguire per l’Adriatico,
evitando Firenze dove avrebbero potuto trovarli. Passavano anche i detenuti
diretti ad Auschwitz. Noi provavamo ad aiutare tutti. Avevamo allestito un
pronto soccorso per loro, ovviamente di nascosto. Preparavamo il pane,
ne sfornavamo tanto e ci davamo da fare a raccogliere grano per provare a sfamarli tutti. Ma così ci sentivamo uniti, umani. Ci aiutava a sopportare, a resistere. Quell’inverno fu molto freddo, dieci gradi sotto zero. Loro prendevano i
nostri vestiti. Un giorno in chiesa mia madre riconobbe la mia giacca sulla
moglie di un compaesano e capimmo che molto probabilmente lui aiutava i
tedeschi. Dovevamo stare attenti a tutto: sparavano chiunque per un minimo
sospetto. Ho visto morire tante
persone: ricordo un nonno che cercava di salvare il suo nipotino di 11 anni, ma
spararono entrambi. E per
ogni tedesco ucciso loro uccidevano dieci civili italiani».
Ma oggi Franco Veri, il figlio di Velia e presidente dell’associazione Dinamica Odg ha organizzato insieme alla Casa del popolo di Fuorigrotta di Napoli, con i consiglieri Gianluca Cavotti e Annalisa Mantellini, a Fabiana Di Costanzo, e ad altre associazioni napoletane un flash mob speciale, proprio per non dimenticare la sofferenza, i sacrifici e le lotte di Velia e di tanti come lei: così in quarantena ci si «riunisce» nel modo che è sembrato vincente negli ultimi tempi. E allora tantissime persone sui balconi a sventolare qualcosa di rosso e a cantare per ricordare che l’Italia ce l’ha fatta, e ce la farà ancora. E oggi come allora bisogna ancora lottare contro il nuovo male dei nostri giorni, il coronavirus.